Casa Museo Alda Merini
20143 Milan, Italia
Casa Museo Alda Merini Company Information
Informazioni Generali
ALDA MERINI – Notizie biografiche a cura de La casa delle Artiste – Casa delle Arti – Spazio Alda Merini
Alda Giuseppina Angela Merini nasce il 21 marzo 1931 a Milano in viale Papiniano, 57 in una famiglia di condizioni economiche modeste. Il padre, Nemo Merini, era dipendente presso le assicurazioni la “Vecchia Mutua Grandine ed Eguaglianza il Duomo”, la madre, Emilia Painelli, casalinga; era secondogenita di tre figli, tra Anna ed Ezio. Della sua infanzia si conosce quel poco che lei stessa scrisse in brevi note autobiografiche: «una ragazza sensibile e dal carattere melanconico, piuttosto isolata e poco compresa dai suoi genitori ma molto brava ai corsi elementari». Non potendo frequentare il liceo Manzoni perché respinta in italiano, compie gli studi superiori all’Istituto professionale Laura Solera Mantegazza e, contemporaneamente, si dedica allo studio del pianoforte.
Compone le prime liriche a quindici anni e, nel ‘47 inizia a frequentare la casa di Giacinto Spagnoletti, critico letterario, poeta e romanziere (Taranto, 8.2.1920 – Roma, 15.6.2003), considerato tuttora il primo scopritore della poetessa, dove conosce Giorgio Manganelli, scrittore, traduttore, giornalista e critico letterario (Milano 15.11.1922 – Roma 28.5.1990) – che fu un vero maestro di stile per lei, oltre che suo primo grande amore a cui dedicò la sua prima raccolta poetica (1953), ove, immedesimandosi in Euridice, arrivò a identificarlo in un novello Orfeo.
Ma il ‘47 è anche l’anno in cui si manifestano i primi sintomi di quella che sarà una lunga malattia; Merini incontra “le prime ombre della sua mente” e viene internata per un mese nella clinica Villa Turro. Quando ne esce, ad attenderla c’ è Manganelli: lui 27 anni, sposato, lei appena sedicenne; vivranno cinque anni di amore intenso e contrastato che si interruppe traumaticamente quando egli si trasferì definitivamente a Roma.
Nel ’51, l’editore Vanni Scheiwiller (Milano 8.2.1934 – 17.10.1999), l’eccellenza nell’editoria di poesia e nella letteratura di qualità e ricerca, su consiglio di Eugenio Montale e Maria Luisa Spaziani, include alcune sue liriche nel volume Poetesse del Novecento, evento che legittima l’ingresso di Merini nel panorama della poesia di qualità. Già da questi primi componimenti si intuiscono quelli che saranno motivi ricorrenti nella poetica della Merini: l’intreccio di temi erotici e mistici, di luce e di ombra, il tutto però amalgamato da una concentrazione stilistica notevole, che nell’arco degli anni lascerà spazio a una poesia più immediata, intuitiva.
Dopo la partenza di Manganelli da Milano, nel periodo che va dal ‘50 al ‘53, la Merini frequenta Salvatore Quasimodo, poeta e premio Nobel per la letteratura nel 1959, al quale dedica due liriche.
Nel ‘53 sposa Ettore Carniti, proprietario di alcune panetterie a Milano. In un’intervista, grazie alla sua ironia, Merini afferma che, conscia che “Carmina non dant panem”, lei aveva deliberatamente sposato un panettee!
Il ‘55 è l’anno della nascita della prima figlia, Emanuela; al pediatra della bambina, Pietro, è dedicata un’intera raccolta di poesie. Segue un silenzio durato vent’anni.
Nel ’62, dopo un violento litigio con il marito, viene internata nel manicomio Paolo Pini, dal quale uscirà definitivamente solo nel ‘72 – a parte brevi periodi durante i quali ritorna in famiglia e nascono altre tre figlie: Flavia, Barbara e Simona. – ma l’alternanza di periodi di lucidità e follia continua fino al ‘79. Anche a posteriori, Merini non imputerà mai al marito la colpa del suo internamento: era un uomo semplice, «elementare se per elementare si intendono gli elementi della Natura. Il suo realismo mi tenne sempre in piedi.»
Merini racconta in un’intervista: «Fui quindi internata a mia insaputa, e io nemmeno sapevo dell’esistenza degli ospedali psichiatrici perché non li avevo mai veduti, ma quando mi ci trovai nel mezzo credo che impazzii sul momento stesso: mi resi conto di essere entrata in un labirinto dal quale avrei fatto molta fatica a uscire. Mi ribellai. E fu molto peggio. La sera vennero abbassate le sbarre di protezione e si produsse un caos infernale. Dai miei visceri partì un urlo lancinante, una invocazione spasmodica diretta ai miei figli e mi misi a urlare e a calciare con tutta la forza che avevo dentro, con il risultato che fui legata e martellata di iniezioni calmanti. Non era forse la mia una ribellione umana? Non chiedevo io di entrare nel mondo che mi apparteneva? Perché quella ribellione fu scambiata per un atto di insubordinazione? Un po’ per l’effetto delle medicine e un po’ per il grave shock che avevo subito, rimasi in istato di coma per tre giorni e avvertivo solo qualche voce, ma la paura era scomparsa e mi sentivo rassegnata alla morte.
Dopo qualche giorno, mio marito venne a prendermi, ma io non volli seguirlo. Avevo imparato a risconoscere in lui un nemico e poi ero così debole e confusa che a casa non avrei potuto far nulla.
E quella dissero che era stata una mia seconda scelta, scelta che pagai con dieci anni di coercitiva punizione. Il manicomio era sempre saturo di fortissimi odori. Molta gente addirittura orinava e defecava per terra. Dappertutto era il finimondo. Gente che si strappava i capelli, gente che si lacerava le vesti o che cantava sconce canzoni.
Noi sole, io e la Z., sedevamo su di una pancaccia bassa, con le mani raccolte in grembo, gli occhi fissi e rassegnati e in cuore una folle paura di diventare come quelle là. In quel manicomio esistevano gli orrori degli elettroshock. Ogni tanto ci assiepavano dentro una stanza e ci facevano quelle orribili fatture. Io le chiamavo fatture perché non servivano che ad abbrutire il nostro spirito e le nostre menti. La stanzetta degli elettroshock era una stanzetta quanto mai angusta e terribile; e più terribile ancora era l’anticamera, dove ci preparavano per il triste evento. Ci facevano una premorfina, e poi ci davano del curaro, perché gli arti non prendessero ad agitarsi in modo sproporzionato durante la scarica elettrica. L’attesa era angosciosa. Molte piangevano. Qualcuna orinava per terra. Una volta arrivai a prendere la caposala per la gola, a nome di tutte le mie compagne. Il risultato fu che fui sottoposta all’elettroshock per prima, e senza anestesia preliminare, di modo che sentii ogni cosa. E ancora ne conservo l’atroce ricordo».
Nel ‘79 Merini rompe il silenzio e inizia a lavorare su quello che è considerato il suo capolavoro: La Terra Santa, vincitrice del Premio Librex Montale nel ‘93. È l’inizio di una poetica diversa, impregnata della devastante esperienza manicomiale. Si tratta di liriche di un’intensità potente, dove la realtà lascia il posto all’idea stessa del reale, sublimata e deformata dal delirio della follia.
La prima proposta di stampa dell’opera fu accolta da una totale indifferenza da parte degli editori. Solo nel 1984 Schweiller darà alle stampe la prima edizione de La Terra Santa, segnando la fine dell’ostracismo dell’artista.
Merini inizia un’amicizia a distanza con Michele Pierri, medico e poeta tarantino. L’intesa fra i due si fa sempre più forte, malgrado i trent’anni e i chilometri che li separano; la loro fu una storia d’amore, vissuta per quasi quattro anni sul filo del telefono e in centinaia di lettere e poesia che soprattutto Alda inviava; si sposarono nel 1983 e merini si trasferì a Taranto: il matrimonio durò quasi quattro anni che Alda così riassume: “per quattro anni fui una sposa felice”. Alda amò talmente Pierri da scrivere al Papa perché autorizzasse la loro unione mentre ancora Ettore era vivo (morì nel 1981): evidentemente trovò in lui tutte le doti umane, spirituali, morali, poetiche che sentiva necessarie alla propria felicità. La cura che Pierri le riservò produsse un periodo di proficua creatività per la Poetessa. La fase terminale della malattia di Pierri (morì nel gennaio 1988) condusse Merini nell’angoscia e fece naufragare quella tranquillità apparentemente raggiunta tanto da richiedere aiuto al reparto neuro dell’Ospedale tarantino. Dopo un brevissimo ricovero Alda, che si descrisse “malata di nostalgia” per Milano, fece ritorno in Ripa Ticinese 47, la sua abitazione dove oggi è apposta una lapide a ricordo. Successivamente, si parlò di un internamento nel manicomio di Taranto, ma non risponde a verità in quanto a Taranto non è mai esistito un manicomio (né una istituzione similare), inoltre dal 1978 la legge Basaglia aveva abolito gli “internamenti” e i manicomi stessi.
La leggenda dell’internamento nasce dagli stessi racconti di Alda che, nei due anni confusi che seguirono, visse un periodo tormentato di cure, nella sua Milano e non certo a Taranto. Chi ha conosciuto Alda sa perfettamente come spesso lei considerasse anche la fantasia parte integrante della realtà e come la poesia, unita all’ironia, siano state le leve propulsive del suo cammino, della sua rinascita dopo le sofferenze patite per la malattia e per quelle derivanti dall’allontanamento delle figlie che vennero affidate ad altre famiglie.
Alda Merini si spegne il 1 novembre 2009, all’età di 78 anni, all’Ospedale San Paolo di Milano. Nella sua bara vengono posti: una rosa rossa, un pacchetto di sigarette, pochi euro per pagare Caronte affinché la traghetti sull’altra sponda e la foto del marito Ettore.
Oggi Alda Merini è tumulata nel Cimitero Monumentale di Milano, nella Cripta del Famedio.
Alda Merini è stata e continua ad essere una delle voci più potenti e prolifiche della poesia contemporanea. Negli ultimi anni soleva telefonare ai suoi editori più volte al giorno e anche durante la notte per dettare i suoi versi. È impossibile riuscire a dare un ordine, catalogare il lavoro di un’artista che ha fuso vita e arte in un’unica forma inscindibile.
Per bibliografia vedi https://spazioaldamerini.org/alda-merini/
via Magolfa ,32 Milan
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